Maternità surrogata. Alcune riflessioni in seguito all’uscita della Dichiarazione Dignitas infinita del Dicastero per la Dottrina della Fede: l’utero in affitto cosifica la donna e rende il figlio oggetto di scambio
di padre Augusto Chendi*
La recente Dichiarazione Dignitas infinita del Dicastero per la Dottrina della Fede ha “conquistato” le prime pagine di molti quotidiani, soprattutto in ordine al rifiuto della violazione della dignità umana che si realizzerebbe con le tecniche della cosiddetta “maternità surrogata” o “per altri”.
IDENTITÀ DI FIGLIO, DESIDERIO E DIRITTO ALLA GENITORIALITÀ
Questa specifica valutazione, prima ancora di derivare o di riferirsi ad un dato di fede o credo religioso, afferisce ad un incontestabile dato antropologico o all’“humanum” razionalmente inteso. L’essere figlio, infatti, appartiene all’identità stessa dell’uomo; per questo le modalità e le situazioni che possono portare alla nascita di ciascun figlio non sono indifferenti né per l’etica né per il diritto, se compito di entrambi è tutelare e garantire l’integrità e il pieno sviluppo dell’identità di ciascun essere umano.
Ciò detto, anche il desiderio di avere un figlio è come tale umanamente comprensibile, e si può ben capire la sofferenza che a molte coppie arreca la sterilità o l’infecondità; ed è come cura di queste patologie che dovrebbero giustificarsi le tecniche di procreazione assistita. Va anche detto che il desiderio del figlio non è sempre facilmente identificabile, per lo meno non in una società contraddistinta da tassi bassissimi di fecondità, in cui molte coppie decidono invece, intenzionalmente, di non procreare. Stupisce, poi, la percezione, sempre più diffusa, che questo desiderio non possa essere soddisfatto in altro modo che attraverso una genitorialità biologica, anche se ottenuta con una defatigante serie di esami, di lunghe attese, di possibili frustrazioni e fallimenti che le tecniche comportano. E questo a fronte della possibilità, alternativa e altrettanto umanamente significativa, dell’adozione o dell’affido.
Desiderare il figlio non legittima comunque alcun “diritto al figlio”, soprattutto se questo si trasforma nel diritto a programmare un altro uomo. La vera questione morale da questo punto di vista non risiede tanto nel carattere artificiale della procreazione assistita, quanto nel rischio che essa si possa trasformare in un atto di programmazione e di selezione eugenetica. Se così fosse, assisteremmo allo stravolgimento del significato proprio del generare e dell’essere figli: verrebbe negata in origine quella irriducibile alterità, quella novità, quella libertà di cui ogni essere umano è misteriosamente latore e di cui il nostro vivere sociale avverte drammaticamente la carenza.
In questo quadro, nel quale si confrontano l’approccio sostanzialistico e quello funzionalistico, le tecniche che maggiormente sono emblematiche delle questioni etiche, giuridiche e antropologiche coinvolte sono coagulate attorno alla maternitàsurrogata o per altri.
LA MATERNITÀ SURROGATA
Occorre qui soffermarsi più a fondo in ordine alla “violenza” che si impone dietro al pretesto della presunzione di un “diritto”. Al riguardo, emergono non secondari interrogativi sostanziali ai quali è doveroso dare risposte. In specie: è moralmente lecito delegare ad altri una relazione complessa come quella che si attua tra il generato e la gestante durante la maternità? Si può limitare la relazione donna-madre ad una “funzione” a tempo determinato? Desideri e progetti di una coppia committente possono essere riconosciuti come diritti? Un desiderio umano può accampare diritti sull’esistenza di un altro essere umano? Se fondata su un atto oblativo e volontario, la surrogazione risulta meno lesiva della dignità della donna?
Avere, oggi, il coraggio di contestare e vietare la maternità surrogata significa garantire e tutelare, a livello sociale, culturale e giuridico, un diritto universale che finora non sembrava necessario porre: quello di poter nascere dal grembo della propria madre e di non essere privato, grazie alla tecnica, di quel legame che non è solo biologico, fisiologico, funzionale, ma “umano”. E nell’epoca dei diritti, abbiamo tutti la responsabilità di garantire questo diritto “umano e civile”.
Nella storia ci sono state tante forme di violenze – purtroppo ancora presenti – perpetrate, anzitutto nei confronti delle donne, in nome di un preteso diritto alla genitorialità e del desiderio di avere figli. Tuttavia, nessun desiderio può trasformare un essere umano, un figlio, in un “oggetto”; la violenza, del resto, proprio dietro al paravento della presunzione di un “diritto”, si può esercitare in molti modi: economici, psicologici, emotivi.
È un dato incontrovertibile che viviamo in un’epoca storica nella quale si moltiplica l’appello ai “diritti”, senza che sia chiaro quale sia il loro fondamento, in che cosa si distinguano dai semplici desideri e che tipo di “doveri” implichi il loro riconoscimento. E anche nel caso della cosiddetta maternità surrogata o per altri entra in gioco proprio questa strategia comunicativa. Si parla, infatti, di un “diritto” alla genitorialità che questa pratica sarebbe in grado di garantire; cosicché, per rendere più efficace l’artificio retorico, la si collega ai diritti delle persone LGBTQ, ignorando che la maternità surrogata è anche utilizzata da coppie eterosessuali.
Ora, però, se si vuole ragionare al di là degli schemi, delle solite contrapposizioni, progressisti versus conservatori, cattolici versus laici, liberali versus conservatori, sinistra versus destra, e si entra, finalmente, nel merito della questione, occorre chiarire i termini del problema. A differenza di quanto alcuni affermano, una possibilità “tecnica” non istituisce alcun diritto in sé, né può essere interpretata semplicemente come un’“opportunità”, se finisce con il calpestare la dignità e i diritti dei soggetti meno tutelati persino dalla narrazione pubblica: appunto la donna e il bambino. In questo senso, nessuna società democratica dovrebbe tollerare qualsiasi forma di “schiavitù”, fosse pure volontaria o contrattualizzata: ogni strumentalizzazione del materno e del corpo femminile, ridotti a pura funzione, è di fatto una forma di schiavitù e una aperta violazione dei diritti umani.
Del resto, se davvero vogliamo pensare alla nostra responsabilità verso le generazioni future, allora dobbiamo chiederci se si possa pensare a un diritto alla genitorialità che non tenga in nessuna considerazione il diritto del generato, cioè di quel “figlio” che non è “soltanto” un neonato, ma un essere umano, dunque un cittadino che dovrebbe godere del diritto costitutivo di non diventare mai, a nessuno stadio della sua esistenza, “oggetto” di scambio e, diciamolo, nemmeno “oggetto” di desiderio, perché costitutivamente “soggetto”.
Garantire, a livello etico e giuridico, i diritti dei “figli” significa garantire i diritti di tutti. Non tutti gli esseri umani sono padri o madri, ma tutti, per tutta la loro esistenza, sono “figli” di qualcuno. Parlare di figli significa riflettere su due aspetti: la dimensione relazionale della nostra origine e il fatto che i diritti dei “bambini” sono un aspetto decisivo dei diritti dei figli, perché quella fase, transitoria, ma rilevante, richiede una garanzia anche sociale. Eppure, va notato che, oggi, si invocano i diritti dei bambini per legalizzare, a posteriori, varie tecniche riproduttive eterologhe, compresa la maternità surrogata, pratiche che di fatto funzionano proprio perché dei futuri bambini, del loro benessere, dei loro diritti e della loro dignità non si tiene sufficiente conto. Nella maternità surrogata o per altri si chiede, di fatto, a una donna di svolgere, per nove mesi, la funzione materna per poi prelevare il neonato ed affidarlo ad una coppia sociale. Certo, alcuni genitori sociali possono anche essere migliori dei genitori biologici, ma questo non legittima la trasformazione della maternità biologica e fisiologica in un puro mezzo riproduttivo. Proprio questa falsificazione etica e antropologica della maternità dovrebbe indurre al divieto.
L’ELIMINAZIONE DELLA DONNA, DELLA MADRE
Le tecniche procreative possono facilmente frantumare le figure genitoriali, facendo prevalere quella sociale, ma non si può ignorare che la prassi della maternità surrogata introduce un ulteriore vulnus, che investe la stessa figura del materno e della donna. La maternità diventa una nozione astratta, che nell’immaginario collettivo fa sparire la concreta esistenza di una donna, della sua storia personale e della sua relazione, che dura i nove mesi della gestazione, con il figlio che porta in grembo e che è già pensato come un “estraneo” da consegnare ad altri. La donna diventa una funzione fisiologica, interscambiabile, alla stregua di qualsiasi gamete maschile e femminile. Nove mesi di “lavoro riproduttivo”, dalla generazione al parto, per finire con la consegna ai committenti del neonato. A tale proposito, è sufficiente andare in rete e leggere i contratti e le proposte del nuovo “mercato liberale” per comprendere come “funziona” questa prassi, uscire cioè dalla narrazione oblativa e solidale e rimettere i piedi per terra, e verificare lo stravolgimento del significato originario della nostra comune umanità in una mera proprietà “privata”.
Nel momento in cui le tecniche rendono possibili molti scenari relazionali, bisogna avere, dunque, il coraggio etico e giuridico di riaffermare – come attesta il documento dottrinale Dignitas infinita – che ogni essere umano, ogni figlio, ha il diritto, proprio come essere umano e in forza della sua originaria dignità, di nascere nel e dal grembo della propria madre e di non essere oggetto di un preventivo scambio di interessi tra i committenti e le “esecutrici” della gestazione e del parto.
Ogni persona è, dunque, chiamata a tutelare insieme il generato e il materno, impedendo una nuova e sottile forma di sfruttamento delle donne e dei figli. Il diritto alla genitorialità ha dei limiti “costitutivi” legati ai diritti dei generati e ai diritti delle donne; diritti che, fondati sull’innata dignità umana, fondano i nostri “doveri” nei confronti degli uni e delle altre.
* Direttore dell’Ufficio diocesano per la Pastorale della Salute
Pubblicato sulla “Voce” del 19 aprile 2024
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