Torna l’11 febbraio la Giornata Mondiale del Malato: la cura come gesto dell’intera comunità ecclesiale
di padre Augusto Chendi*
«Siamo fatti per l’amore, siamo chiamati alla comunione e alla fraternità. Questa dimensione del nostro essere ci sostiene soprattutto nel tempo della fragilità, ed è la prima terapia che dobbiamo adottare per guarire le malattie della società in cui viviamo». Lo scrive Papa Francesco nel Messaggio per la XXXII Giornata Mondiale del Malato, che sarà celebrata il prossimo 11 febbraio, memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes.
Il documento pontificio prende spunto da un passaggio del libro biblico della Genesi «Non è bene che l’uomo sia solo» (2, 18) e ha come tema «Curare il malato curando le relazioni».
Richiamando l’icona evangelica sempre valida del Buon Samaritano, Papa Francesco riconduce l’attenzione della Comunità cristiana alla radice ultima di quel gesto di prossimità sintetizzato nell’espressione lucana: «e si prese cura di lui» (10, 34b). «E proprio perché questo progetto di comunione è inscritto così a fondo nel cuore umano – afferma il Papa -, l’esperienza dell’abbandono e della solitudine ci spaventa e ci risulta dolorosa e perfino disumana. Lo diventa ancora di più nel tempo della fragilità, dell’incertezza e dell’insicurezza, spesso causate dal sopraggiungere di una qualsiasi malattia seria».
Di questa solitudine e abbandono, che ci rende quasi indifferenti gli uni agli altri, in diversi modi, tutti abbiamo fatto esperienza nella recente pandemia; ma questi atteggiamenti si fanno più incisivi e crudi nel momento della sofferenza, della malattia, compresa l’anzianità che, nel frangente storico che sta attraversando il nostro Paese, costituisce un dato significativo non solo delle rilevazioni statistiche, con immediati riflessi anche per il futuro prossimo e remoto. E tutto ciò comporta forti implicazioni per la pastorale, per l’agire ecclesiale che siamo chiamati ad esprimere come discepoli del Pastore che ama la vita e si prende cura, in particolare, di quella più fragile. All’opposto, se queste fragilità, come in particolare la malattia, sono vissute nell’isolamento e nell’abbandono possono diventare disumane.
La solitudine è una componente significativa nell’esperienza del dolore, della malattia e della disabilità, nelle quali si vive un isolamento sociale, c’è un maggior bisogno affettivo, si dà maggior valore alle relazioni e si è, quindi, più sensibili alla loro assenza o alla loro inconsistenza. La solitudine non può essere del tutto condivisa ma, almeno in parte, “consolata”.
Come discepoli di Cristo, Comunità da lui fondata e nella quale egli ancora oggi esprime quotidianamente la sua salvezza, siamo chiamati all’attenzione alle persone nei vari momenti della loro storia, alle relazioni che intessono e ai luoghi in cui vivono, cogliendo in specie nelle esperienze di fragilità e di particolare vulnerabilità il luogo privilegiato di una cura reciproca, di uno scambio d’amore e di un “con-forto” abitato dallo Spirito: un’attenzione – con il linguaggio di Papa Francesco – rivolta specialmente alle periferie del mondo e dell’esistenza, che non sono soltanto luoghi ma anche, e soprattutto, persone singole, famiglie e interi gruppi sociali. Siamo chiamati a riscoprire e ad approfondire una cultura dell’attenzione. In questo orizzonte nel suo Messaggio il Papa indica la compassione, da abbinare alla cura, come atteggiamento, come stile di condivisione della sofferenza.
L’invito del Santo Padre, che si eleva in tempi segnati anche dal sangue e da inaudite violenze in diverse aree del mondo, acquista maggiore rilievo sullo sfondo del Cammino sinodale, che sta impegnando la Chiesa tutta, dalle realtà più locali alla sua dimensione universale. Infatti «proprio attraverso l’esperienza della fragilità e della malattia – sottolinea Papa Francesco – possiamo imparare a camminare insieme secondo lo stile di Dio, che è vicinanza, compassione e tenerezza». In questo “cambio di paradigma” sinodale, si deve prendere atto che gli ammalati sono sì negli Ospedali e nelle Case di Riposo, ma sempre più sono nelle nostre case, nelle comunità; la cura degli ammalati era delegata fino a qualche decennio fa ai sacerdoti, oggi è invece la Comunità cristiana a essere coinvolta. Il cambiamento nella Chiesa non è mai concluso: stare accanto alle persone, soprattutto nel momento di fragilità e di malattia, vuol dire camminare insieme creando una rete di relazioni.
La sofferenza, analogamente ad altre forme di fragilità, è esperienza di solitudine e chiede presenza “con-fortante” e “con-solante” più che argomenti logici. È nella relazione compassionevole che il sofferente fa esperienza di essere salvato. Ciò significa – sono sempre le parole del Papa – che «lo smarrimento, la malattia e la debolezza non ci escludono dal popolo di Dio, anzi, ci portano al centro dell’attenzione del Signore, che è Padre e non vuole perdere per strada nemmeno uno dei suoi figli». In tal senso, il rifiuto della cosiddetta “cultura dello scarto”, deve trasfigurarsi nella parabola iconica del Buon Samaritano come modello di attenzione verso i più deboli. Una scelta, un atteggiamento oggi davvero controcorrente, anche per la Comunità ecclesiale: dall’autoreferenzialità alla cura delle relazioni, dall’abbandono alla condivisione “com-passionevole”, ovvero il porsi accanto all’altro come persona, un “tu” che mi appartiene.
* Direttore dell’Ufficio diocesano per la Pastorale della Salute
Pubblicato sulla “Voce” del 2 febbraio 2024
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