La testimonianza del missionario don Emanuele Zappaterra: «ho superato l’efficientismo, ho rischiato di morire di Covid. Ora mi commuovo per il germoglio: una cappella e un fogón»
[25esima testimonianza – Rubrica mensile “Un ferrarese in Argentina”]
Dopo due anni! Due anni è molto, due anni è poco. Dipende da quello che tu fai in questi due anni. Se si tratta di portare avanti quello che si è già costruito, allora possono essere un buon tempo. Ma se si tratta di partire da zero, allora sono davvero pochi, perché due anni sono solo l’inizio. E giusto sono passati due anni dal mio arrivo a Villa Paranacito e Ceibas. Un tempo trascorso nel conoscere la gente e il suo territorio, nel mettere basi e creare alleanze, nel metterci in ascolto della Parola del Signore per trovare risposte e ancor più domande, nel costruire insieme e nel condividere.
Proprio adesso che sono passati due anni possiamo dire che siamo arrivati all’inizio del cammino. E se consideri che nelle isole dell’Ibicuy tutto va più adagio, due anni sono proprio poco, ma un poco fecondato dalla speranza e benedetto da Tata Dios, che ci ha fatto riscoprire una volta ancora Popolo di Dio. E per arrivare in fondo ed essere pronti per abitare questa terra, forse ci vorranno quarant’anni anche per noi.
Ringrazio il Signore Misericordioso e questi fratelli che mi ha regalato, perché mi hanno guarito dalla malattia del “tutto subito”, dell’efficientismo, che sempre scarta qualcuno e mi hanno fatto crescere nella libertà dai tempi imposti, che sono innaturali e ai quali stiamo condannando tante persone anche nelle nostre comunità ecclesiali. E in questo processo di guarigione continua a dar man forte la natura nella quale sono immerso, che non si lascia pianificare da assemblee di esperti, che non servono a nessuno se non a loro stessi, che si onorano gli uni gli altri (espressione di evangelica memoria).
E giusto sono passati tre anni dalla fine della mia convalescenza dopo il lungo ricovero per Covid 19, che mi aveva portato vicino alla morte; altra grande scuola di umanizzazione della mia persona alla luce della fede, vera e propria trasfigurazione e occasione per maturare la libertà da sé stessi, dai giudizi e dagli inutili sistemi. E proprio ricordandolo nella preghiera in questi giorni, mi sono reso conto che quest’esperienza è stata un dono per poter imparare la spoliazione necessaria al missionario: senza kenosi non c’è incarnazione. Senza passare da lì non so come avrei fatto.
Adesso si riesce a vedere anche quello che prima restava nascosto. «Ecco faccio una cosa nuova: proprio ora sta germogliando, non ve ne accorgete?» (Is 43,19).
Così resti commosso davanti al miracolo del germoglio, senza nessuna retorica, ma nella semplicità della concretezza, com’è successo sabato scorso, 15 marzo, quando un gruppo di persone di Ñancay si è costituito in commissione e ha organizzato una giornata di lavoro per ripristinare l’uso della cappella cattolica del villaggio. Due anni di attesa, che sono partiti con una Messa a cielo aperto, sfidando il freddo umido dell’autunno argentino, con cinque persone e alcuni bambini, dove nessuno ha fatto la Comunione, perché dopo il Battesimo non avevano ricevuto nessun altro sacramento. Nessuno li aveva preparati. Gente alla quale è costato lasciarsi smuovere dalla Parola del Signore ed esporsi pubblicamente, rischiando gli equilibri delle relazioni in una piccola comunità rurale, dove essere tagliati fuori significa perdere tutto, essere stigmatizzati. Ci siamo messi in gioco insieme. Ci siamo aspettati, dovevamo crescere nella fiducia reciproca e in questo ci ha aiutato la fede e la preghiera. E finalmente ci siamo arrivati. Anzi, ci siamo lasciati portare dal Signore e da Maria, Nostra Signora del Santo Rosario, patrona della cappella.
È stato un tempo di gioia, lavoro, pranzo condiviso e discernimento comunitario attorno al fogón (“falò”) e poi la Messa. Prima di andarmene al centro parrocchiale di Ceibas per celebrare, li ho ringraziati per la testimonianza che mi avevano dato. E loro con l’umiltà che li contraddistingue hanno ringraziato me, il loro cura gaucho (“prete gaucho“). Sentirmi chiamare gaucho da loro, io un europeo, mi ha riempito il cuore. Non me lo aspettavo. Gaucho detto da loro, significa ben oltre di quello che trovi in Wikipedia, esprime il riconoscerti uno di loro, perché incarni lo spirito di quel popolo.
Chi tornerà a Ferrara un giorno, secondo i disegni di Dio, non sarà più quello che era partito.
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 marzo 2025