Testimonianza del nostro diacono e seminarista Milella su un modello virtuoso di alternativa alla detenzione nel riminese
di Vito Milella
Noi diaconi del sesto anno al Seminario Regionale, in sede di una tre giorni incentrata sul sacramento della riconciliazione, abbiamo avuto l’opportunità, lo scorso 13 dicembre, di conoscere la realtà del CEC (Comunità Educante con i Carcerati). Ci siamo recati per l’occasione a “Casa Betania” della Comunità Papa Giovanni XXIII, in Coriano, nella Diocesi di Rimini.
La funzione del CEC è di eliminare le cause che conducono al comportamento deviante in una modalità alternativa a quella del carcere: ciò che si vuole dimostrare è che, dati alla mano, i casi di recidiva calano notevolmente e oltretutto con costi inferiori.
Al CEC, i detenuti riflettono sul proprio vissuto, sulla propria ferita, elaborano la loro rabbia. Si cerca, infine, di valorizzare i loro tratti positivi. I danni e il male commessi rimangono senza dubbio, ma è miracoloso e stupefacente quando, dal male, si vede rifiorire la persona. Gli strumenti sono anzitutto il riscoprire il valore della fraternità e della condivisione, a cui seguono resoconti scritti, incontri personali e di gruppo, occasioni di incontro e di lavoro. L’idea che sta alla base è proprio quella di tirare fuori il bello che c’è nella persona nel vero senso etimologico del termine “educare”.
Spesso il male che si fa è una reazione sbagliata ad una ferita, consapevole o non. I peccati nascono infatti dalle nostre ferite, poiché nessuno nasce delinquente! Dipende come si reagisce. Quello che emerge, nel vivere con i carcerati – come ci ha spiegato il diacono responsabile della Casa, Giorgio Pieri – è che le persone che compiono atti delittuosi, hanno alle spalle situazioni di famiglie ferite o di mancanza di una figura genitoriale, o ancora di sfiducia da parte di queste. Don Oreste Benzi diceva che nello sbaglio di uno c’è uno sbaglio di tutti e che per recuperare uno c’è bisogno di tutti. Veramente dialogando con i detenuti abbiamo fatto esperienza concreta di come ci sia sempre una ferita di fronte alla quale si è reagito nel modo più sbagliato, terribile e grave! Una volta scoperta la fragilità della persona, la si mette nel proprio cuore: questa è la misericordia.
In un ambiente di recupero come questo è necessario tornare umili: chi si credeva un “grande”, un vero uomo perché rapinava, spacciava, violentava, uccideva, qui fa l’esperienza dell’essere piccolo, fa l’esperienza di essere semplice. In questa situazione si crea il vuoto e in quel vuoto può affiorare il buono. Da quel male vissuto, capito, affrontato, può nascere qualcosa di buono: lo abbiamo visto con i nostri occhi.
Gli stessi detenuti ritengono che, per quello che hanno fatto, meriterebbero più anni di galera e che la pena che devono scontare non toglierà il male da loro compiuto. La pena in carcere in sé è giusta ma occorrono ambienti che curino le ferite. In una realtà comunitaria in cui i detenuti hanno potuto elaborare la colpa, stanno cambiando in un modo certamente più efficace rispetto a un ambiente carcerario che non si pone la domanda educativa e in cui, talvolta, si sperimenta ulteriore violenza o autolesionismo. Abbiamo ascoltato, tra le altre, la testimonianza di un ragazzo (Karim) che sta facendo tanto bene alla comunità curando tante ferite, perché lui per primo si è fatto curare e sa da dove bisogna passare. Chi ha vissuto la sofferenza è come fosse più abilitato a farsi prossimo (cf. 2 Cor 1,4). Evento decisivo per Karim fu quando il cappellano del carcere di Forlì lo chiamò “figliolo”: nessuno prima d’ora lo aveva chiamato così. Il suo viso ora è bello e sorridente.
Il CEC è anche esperienza totalizzante di perdono: perdono di sé, richiesta di perdono da parte di chi ha subito il male, e perdono a chi si pensa possa aver procurato la personale ferita. Il CEC funziona un po’ come gli amici del paralitico dell’omonima parabola del Vangelo: costoro rappresentano i volontari che ruotano attorno al CEC i quali calano il paralitico dal tetto (il detenuto) per metterlo davanti a Gesù affinché possa sentirsi dire: i peccati ti sono perdonati, alzati e cammina (cfr. Mc 2, 1-12).
Pubblicato sulla “Voce” del 22 dicembre 2023
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