Nel 1972 il cantautore italiano pubblica il suo capolavoro: una riflessione, a partire dalle sue strofe, sulla tradizione
di Giorgio Maghini
Papa Francesco, il 5 agosto scorso, ha invitato i giovani al Parque Tejo di Lisbona, a riscoprire le proprie “radici”, vale a dire tutte quelle persone – familiari, amici, educatori, incontri imprevisti… – che ci hanno segnato e, nel farlo, ci hanno aiutato a diventare quelli che siamo.
Il Papa ha chiamato queste persone – con sapiente precisione – le «radici della gioia».
Da un punto di vista psicologico, la consapevolezza delle proprie radici è uno snodo cruciale: la memoria, possiamo dire, è il collante stesso della personalità. «Grande è questa potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito», dice Sant’Agostino nelle Confessioni.
È evidente che una delle cause – non l’ultima, non la meno importante – della frammentazione psicologica (e della conseguente aggressività) che affligge la nostra società è proprio la mancanza di radici.
A partire da questa assenza si possono aprire riflessioni smisurate, che chiamerebbero in causa la storia, la sociologia, la psicologia, la teologia (in che rapporto stanno, ad esempio, il peccato e la mancanza di radici?)…
Questioni complesse.
Ma siamo in estate, e c’è il tempo per l’ascolto di un vecchio disco, che ci può aiutare a comprendere meglio.
Nel 1972, Francesco Guccini pubblica il suo quarto album che si intitola, appunto, “Radici”.
È il disco che lo consacra definitivamente e che contiene, in una meravigliosa sintesi, il nucleo della sua ispirazione, tanto che non è esagerato dire che tutta la sua opera successiva – più di cinquant’anni di storia della musica italiana – altro non è che un riflesso delle intuizioni presenti in quest’opera.
Intuizioni profonde, solide, salde e vitali.
Come le radici, appunto.
Il disco inizia con la canzone omonima. Un pianoforte non perfettamente intonato introduce l’immagine della casa nella quale la famiglia di Guccini vive da sempre, ed esprime subito la consapevolezza fondamentale: «E tu ricerchi là le tue radici / Se vuoi capire l’anima che hai». Nessuna sfumatura religiosa in quest’album, ma in questa prima canzone trova spazio un’apertura panteistica che rivela la fragilità umana di fronte al tutto: «Ma è inutile cercare le parole / La pietra antica non emette suono / O parla come il mondo e come il sole / Parole troppo grandi per un uomo».
A “Radici” segue “La locomotiva”. Mitizzata, ipercitata, idolatrata, malcompresa, spesso banalizzata, questa canzone è una pietra miliare della musica italiana e Guccini – a differenza di altri artisti che hanno rapporti conflittuali con le loro opere più famose – non ha mai smesso di amarla e di cantarla.
La storia, ben nota e ispirata a un fatto di cronaca, è quella di un ferroviere che si ribella – vanamente – contro l’ingiustizia sociale che vede attorno a sé.
«Non so che cosa accadde, perché prese la decisione / Forse una rabbia antica, generazioni senza nome / Che urlarono vendetta, gli accecarono il cuore…». Al centro di questa canzone – canzone “politica” per antonomasia – si ritrova il tema psicologico fondamentale: le nostre decisioni – tutto ciò che ci definisce – dipendono, in ultima analisi, dai volti che ci portiamo nel cuore.
Le due canzoni successive – “Piccola città” e “Incontro” – sono dedicate a Modena, la città che accoglie la famiglia Guccini quando emigra dal paese natale – lasciando così “la casa sul confine della sera” – e dove Francesco nascerà. Attraverso il racconto di vicende personali, Guccini rievoca anni cruciali per l’Italia: dalla seconda guerra mondiale agli anni ’60, un periodo follemente veloce in cui alla scomparsa del mondo rurale faceva da contraltare l’apertura di prospettive fino ad allora impensabili per i giovani. Ma nemmeno negli ubriacanti anni del “miracolo italiano” le radici scompaiono: «Io, la montagna nel cuore, scoprivo l’odore del dopoguerra…».
Con “Canzone dei dodici mesi” le radici si articolano: Guccini compone un “ciclo dei mesi” che, pur nascondendo un intrico di citazioni alte, disegna, alla fine, il mondo contadino – campi, alberi, fossi, nebbie, grano, fiori, uva, piogge… – in cui le sue radici affondano.
“Canzone della bambina portoghese” e “Il vecchio e il bambino” chiudono il disco con due immagini di infanzia. Entrambi – la bambina e il bambino – guardano “lontano” e “da lontano”.
La prima, sola, osserva l’orizzonte dell’Atlantico, che la intimorisce con la sua infinitezza.
Il secondo, tenuto dal nonno per mano, guarda un panorama industriale, forse sfregiato dalla guerra atomica o, più semplicemente, dai fumi della disordinata (quando non criminale) espansione industriale che il nostro paese ha avuto.
E qui finisce uno dei più bei dischi della musica italiana di ogni tempo.
Nello stesso anno della sua uscita, Pier Paolo Pasolini, per descrivere la fine del nobile e profondo mondo rurale italiano, coniava il termine “mutazione antropologica”.
“Radici” è la traduzione artistica dell’intuizione di Pasolini.
Un’osservazione necessaria.
Si ascolti e si riascolti “Radici”: non vi si troverà neppure una sfumatura di “nostalgia dei bei tempi andati” (anche perché così belli, poi, non erano).
«Tutti, se guardiamo indietro, abbiamo persone che sono state un raggio di luce per la nostra vita», ha detto Papa Francesco ai giovani incontrati a Lisbona. «La gioia che è venuta attraverso quelle radici è quella che noi dobbiamo dare…».
Le “radici” sono, per natura, generative. Avere coscienza della propria storia non significa idolatrare un passato che – siamone certi – non tornerà, ma proiettarci nel futuro portando in esso (ecco cosa significa “tradizione”!) i mille doni che il passato ci ha fatto.
Dev’essere per questo che le ultime parole del disco sono quelle di un bambino che, sognante, chiede ancora fiabe.
Vale a dire: mondi alternativi, possibilità di novità.
“Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!”.
Pubblicato sulla “Voce” del 15 settembre 2023
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