7 ottobre 2019
Alcuni spunti a partire dalle parole chiave del Sinodo per l’Amazzonia, in programma dal 6 al 27 ottobre in Vaticano: le lotte dei poveri della Regione, l’aiuto della Chiesa, la necessità di una conversione integrale
a cura di Andrea Musacci
Una perenne minaccia
“La Terra, Casa comune, nostra sorella “protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla”
(Papa Francesco, Laudato si’, 2)
Solo pochi mesi fa, Michelle Bachelet, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, in un discorso al Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu a Ginevra, ha definito la deforestazione in Amazzonia ”una catastrofe umanitaria” per le popolazioni indigene che vivono nella foresta, con ”un impatto terribile per tutta l’umanità”. Gli incendi – ancora più terribili per via della loro natura dolosa – sono in aumento: 1700,8 km quadrati sono stati persi solo lo scorso agosto, più del triplo rispetto ai 526,5 di un anno fa. La deforestazione dell’Amazzonia nell’estate appena trascorsa è cresciuta del 300% ad agosto rispetto allo stesso mese del 2018, e di quasi il 100% nei primi otto mesi del 2019. Gli esperti prevedono che possano superarsi i 10mila chilometri quadrati di vegetazione rasa al suolo. Le cause, come denunciato da attivisti e dalla stessa Chiesa, sono da rintracciare nella logica divoratrice e violenta di un sistema economico che ragiona solo in termini di profitto, spalleggiato dalla connivenza di un sistema politico corrotto: allevamenti intensivi, monocolture (soprattutto soia), estrazioni minerarie incontrollate, legname, tutto rientra in questo vortice distruttivo e autodistruttivo, del quale tutti pagheremo, in misura sempre maggiore, le conseguenze. “Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso”, è scritto nella Laudato si’, 194. E’ notizia di due settimane fa, il progetto “Barone di Rio Branco” – rivelato dalla testata “The Intercept” – preparato dal governo brasiliano, che ”prevede incentivi per grandi lavori pubblici (costruzione di una centrale idroelettrica, estensione dei collegamenti autostradali e postamento di popolazione verso la regione) che attraggano popolazioni non indigene di altri regioni del Paese, perché si stabiliscano in Amazzonia e aumentino il contributo del Nord del Paese nel Pil nazionale”. L’obiettivo di Bolsonaro è di opporsi a quello che percepisce come il pericolo di una penetrazione cinese e all’influenza della Chiesa cattolica e degli ambientalisti.
Ma non manca nella stessa Chiesa un’autocritica profonda: “chiedo umilmente perdono – sono parole del Papa -, non solo per le offese della propria Chiesa, ma per i crimini contro le popolazioni indigene durante la cosiddetta conquista dell’America” (“Terra, casa, lavoro”, Papa Francesco, ed. Ponte alle Grazie, 2017 – di seguito: TCL). La sfida della Chiesa intera e di tutte le donne e gli uomini di buona volontà, è dunque quella di salvare il territorio amazzonico dal “degrado neocolonialista” (Instrumentum laboris 56 del Sinodo – di seguito: IL), da questo “modello di sviluppo economico predatore, genocida ed ecocida” (IL). Bisogna “sensibilizzare la comunità alle lotte sociali, sostenendo i diversi movimenti sociali per promuovere una cittadinanza ecologica e difendere i diritti umani” (IL 135). “La causa più profonda della crisi mondiale socio-ambientale è strettamente collegata con il modello dominante di sviluppo che il mondo ha adottato” (“Il Sinodo per l’Amazzonia”, Claudio Hummes, ed. San Paolo, 2019 – di seguito: H), per questo il Sinodo “affronterà la sfida di formulare e promuovere nuovi modelli di sviluppo” (H). I tanti attivisti dimostrano come “i poveri non solo subiscono l’ingiustizia ma lottano anche contro di essa! […] I poveri non aspettano più e vogliono essere protagonisti” (TCL – I° discorso ai movimenti). Lotta che spesso ha il prezzo della vita: non si contano ormai gli attivisti caduti per difendere l’Amazzonia, spesso trucidati da bande armate al soldo di qualche imprenditore o potente locale.
“Dal dentro e dal basso”
Sono diversi i motivi per i quali l’Amazzonia può rappresentare un laboratorio per l’intera Chiesa universale. Quest’ultima, infatti, può e deve imparare da questi popoli. Può imparare a decentrarsi, a fare spazio e a salvare luoghi, comunità, ricchezze. “L’Amazzonia – o un altro spazio territoriale indigeno o comunitario – non è solo un ubi (uno spazio geografico), ma anche un quid, cioè un luogo di significato per la fede o l’esperienza di Dio nella storia. Il territorio è un luogo teologico da cui si vive la fede ed è anche una fonte peculiare della rivelazione di Dio. Questi spazi sono luoghi epifanici dove si manifesta la riserva di vita e di saggezza per il pianeta, una vita e una saggezza che parlano di Dio” (IL 19). Può e deve imparare ad ascoltare quella Chiesa periferica, povera, spesso dimenticata, non condannandola ad attendere in eterno che qualcun altro, dal centro, gli “consegni” le parole da pronunciare: “ascoltare implica riconoscere l’irruzione dell’Amazzonia come nuovo soggetto. Questo nuovo soggetto, che non è stato sufficientemente considerato nel contesto nazionale o mondiale né nella vita della Chiesa, è ora un interlocutore privilegiato” (IL 2). È dunque importante “un processo di conversione ecologica e pastorale per lasciarsi interrogare seriamente dalle periferie geografiche ed esistenziali” (IL 3). Periferie che sorprendono, spronandoci a trasformarci: la visione dei popoli indigeni è quella del “buon vivere”, cioè di “vivere in armonia con sé stessi, con la natura, con gli esseri umani e con l’essere supremo” (IL 13). Fin dalla Conferenza di Aparecida del 2007, spiega Papa Francesco, “abbiamo acquisito una consapevolezza molto più viva dell’errore fuorviante del liberalismo americano, che si esprime nel principio: ‘tutto per il popolo, ma nulla con il popolo’ ” (“America Latina. Conversazioni con Hernán Reyes Alcaide”, Papa Francesco, ed. San Paolo, 2019 – di seguito: AL). “Non esiste – prosegue nell’intervista – cambiamento reale e duraturo se non parte ‘da dentro e dal basso’. Questa è la chiave dell’Incarnazione […]. Purtroppo anche alcuni settori della Chiesa sono incapaci di capire questo dinamismo” (AL). Si chiede dunque “di approfondire una teologia india amazzonica già esistente, che permetterà una migliore e maggiore comprensione della spiritualità indigena per evitare di commettere gli errori storici che hanno travolto molte culture originarie” (IL 98). La vita quotidiana dei popoli indigeni, infatti, “è testimonianza di contemplazione, cura e rapporto con la natura. Loro ci insegnano a riconoscerci come parte del bioma e corresponsabili della sua cura oggi e nel futuro” (IL 102). È dunque importante “riconoscere la spiritualità indigena come fonte di ricchezza per l’esperienza cristiana” (IL 123).
Una Chiesa dal volto amazzonico
“Attraverso l’ascolto reciproco dei popoli e della natura, la Chiesa si trasforma in una Chiesa in uscita, sia geografica che strutturale; in una Chiesa sorella e discepola attraverso la sinodalità” (IL 92), è scritto ancora nel documento presinodale. “Una Chiesa dal volto amazzonico”, “missionaria dal volto locale esprime l’avanzamento nella costruzione di una Chiesa inculturata, che sappia lavorare e articolarsi (come i fiumi dell’Amazzonia) con ciò che è culturalmente disponibile, in tutti i suoi campi d’azione e presenza” (IL 114). Di conseguenza, “il soggetto attivo dell’inculturazione sono gli stessi popoli indigeni” (IL 122); inculturazione che “non pregiudica la fede, ma arricchisce la sua comprensione e la sua pratica nella vita. Promuove la diversità nell’unità” (H). Infatti, “i semi di verità e di bene, che tutte le culture posseggono, dimostrano che da sempre Dio è stato presente in esse e si è manifestato attraverso le loro espressioni. Sono impronte di Dio che devono essere scoperte da parte dell’evangelizzatore” (H). “A volte mi rendo conto – sono parole di Papa Francesco – che non è facile dire che nella Chiesa non ci sono regioni di prima o di seconda classe, ma soltanto espressioni culturali diverse. In alcuni Paesi e in talune Chiese locali sembra che sia diffusa una certa qual percezione di superiorità” (AL). Superare questa supponenza significa passare da una “pastorale della visita” a una “pastorale della presenza” (IL 128): “è necessario passare da una ‘Chiesa che visita’ ad una ‘Chiesa che rimane’, accompagna ed è presente attraverso ministri che emergono dai suoi stessi abitanti” (IL 129).
Nuovi sacerdoti e donne
A tal proposito, due sono i nodi delicati su cui si discuterà nel Sinodo. Il primo, riguarda la possibilità di ordinare sacerdoti alcuni indios sposati: “si chiede che, per le zone più remote della regione, si studi la possibilità di ordinazione sacerdotale di anziani, preferibilmente indigeni, rispettati e accettati dalla loro comunità, sebbene possano avere già una famiglia costituita e stabile, al fine di assicurare i Sacramenti che accompagnano e sostengono la vita cristiana” (IL 129). Il Sinodo, spiega Hummes, “dovrà affrontare una sfida di portata storica”, il fatto che “la grande maggioranza delle comunità periferiche delle città amazzoniche, ma ancora di più le comunità disseminate” ovunque, “e, in particolare, le comunità di indios soffrono della mancanza quasi totale dell’Eucarestia per vivere la propria vita cristiana. I momenti di culto domenicale, salvo rare eccezioni, non possono avere la celebrazione della Santa Messa, sono soltanto Liturgie della Parola. Non ci sono sacerdoti per celebrare la Messa” (H). L’altra questione riguarda la necessità di “identificare il tipo di ministero ufficiale che può essere conferito alle donne, tenendo conto del ruolo centrale che esse svolgono oggi nella Chiesa amazzonica” (IL 129). Una rinnovata conversione missionaria La posta in gioco è dunque molto alta, non riguarda solo l’Amazzonia, non riguarda solo il versante ecologico, e nemmeno solo la Chiesa. Riguarda l’intera umanità e l’uomo nella sua integralità. Se non ci si dimentica che “né il papa né la Chiesa hanno il monopolio dell’interpretazione della realtà sociale né la proposta di soluzioni ai problemi contemporanei”, ma “la storia la costruiscono le generazioni che si succedono nel quadro dei popoli che camminano cercando la propria strada e rispettando i valori che Dio ha posto nel cuore” (TCL – II° discorso ai movimenti), “oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale […], per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri” (Laudato si’ 49). Una conversione, questa, doverosa per ogni cristiano: “dobbiamo anche riconoscere che alcuni cristiani impegnati e dediti alla preghiera – scrive il Papa nella Laudato si’ – […], spesso si fanno beffe delle preoccupazioni per l’ambiente […]. Manca loro dunque una conversione ecologica […]. Vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana”. (Laudato si’, 217) L’auspicio è dunque che questa “conversione missionaria e pastorale sia realizzata dalla Chiesa nel mondo intero” (H) e che questo Sinodo possa “diventare un momento forte per riaccendere le speranze frustate e per superare i sentimenti di impotenza”, avendo “il compito di riaccendere la passione missionaria, rinnovare la certezza e la gioia della chiamata di Dio alla missione” (H).
Pubblicato sull’edizione de “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 04 ottobre 2019