“In America Latina sono già tutti cattolici”, “fare missione è inviare i soldi”… No! Missione è uscire, stare, ascoltare. E qui ne hanno molto bisogno…
(22a testimonianza della Rubrica “Un ferrarese in Argentina”)
di don Emanuele Zappaterra
False convinzioni europee che si radicano nelle menti e nella prassi della società del vecchio continente e a volte anche nella Chiesa. È di questo che faccio continua esperienza da quando sono arrivato. Ed è di questo che voglio parlare; questo ed altro ancora.
A chi si aspettava un’altra cronaca della missione chiedo scusa, ma questa volta non sarà così.
Iniziamo da quello che varie volte mi sono sentito dire prima di partire: «ma in America Latina sono già tutti cattolici». Direi che non è proprio così. Qui, in Argentina, c’è bisogno di molta evangelizzazione, perché in tanti territori ancora non si è data. A parte quelle zone non ancora raggiunte, c’è moltissima gente che non ha mai fatto esperienza di vita ecclesiale, così la fede è una tradizione di gesti ancestrali, che di cristiano hanno solo il nome del santo, la cui immagine è conservata in casa. Se passava un sacerdote di tanto in tanto, amministrava battesimi che erano accolti come rito di protezione e buona sorte, poi tutto si fermava lì. È tutto da rifare. E per questo serve un processo costante, che accompagni la vita delle persone, che molte volte sono distanti centinaia e centinaia di chilometri. I preti sono pochi e non saranno mai abbastanza. Ecco perché molti Vescovi nel fine settimana si caricano sulle spalle lo zaino con camice e stola e vanno nelle parrocchie o cappelle a celebrare la Messa e i sacramenti, alcuni di loro senza autista e magari viaggiando in corriere di lunga percorrenza, anche per due giorni, perché il sacerdote ammalato da sostituire vive a 800 chilometri dalla sede vescovile.
Dire in Italia, ad esempio, che i preti sono pochi, da queste parti suona come patetico. Del resto il nord del mondo vuole sempre tutto e subito, lo vuole sotto casa e a volte se lo prende dal sud del mondo, preti compresi. Non mi ricordo più se vi avevo detto che il mio territorio parrocchiale è più grande della provincia di Bologna e sono l’unico prete, con la differenza che non ho le strade e tangenziali bolognesi a disposizione.
Altra convinzione errata è che inviare soldi “ai negretti” o “agli indios” è fare missione. Come vedete non ho mai chiesto che si organizzassero raccolte di fondi per i miei poveracci; e ci sono, eccome! Ma non sono i progetti fatti e finanziati dal gringo ciò di cui hanno bisogno. Missione è lasciarsi coinvolgere, accompagnare, accorciare le distanze, lasciarsi evangelizzare e tirare fuori dalle proprie logiche. Se io con i soldi di Ferrara-Comacchio rendessi super efficienti le strutture parrocchiali e mettessi in piedi tante iniziative caritative e chi più ne ha più ne metta, quando me ne andrò nessun sacerdote vorrà venire a sostituire il tano, perché non disporrà degli stessi mezzi e la gente già si sarà abituata a tendere la mano per ricevere e non per condividere.
Non sto dicendo che i soldi non servono a niente e che la generosità di chi li offre non tenga valore, né tantomeno che non sia importante migliorare una situazione; il punto è che questa è “carità”, che accompagna l’evangelizzazione, ma non posso ridurre a questo la missione. Inoltre, ogni cosa va pensata e realizzata con la gente del luogo e non dalle scrivanie dei nostri uffici. Se si vuole aiutare qualcuno lo devi prima raggiungere, starci, ascoltarlo, metterti alla scuola della sua vita.
Se non si muovono i piedi non c’è missione. Se non si esce dalla lista delle proprie necessità non c’è missione. Se non si esce da se stessi non c’è missione. Qui e lì.
“E altro ancora” ho detto all’inizio e con questo concludo. Che strano che da quando sia partito ci siano state solo due parrocchie che hanno preso contatto con me per un incontro virtuale con il gruppo giovanissimi o giovani. I mezzi di comunicazione oggi non mancano e la tecnologia fa cose che vent’anni fa erano impensabili.
Neanche un giovane o qualcuno che voglia fare un’esperienza? Ma aldilà di questo, è che la circostanza mi interroga e mi viene da chiedermi se, con la scusa che adesso la missione è necessaria a casa nostra, quella ad gentes già sia passata nella lista dei ricordi.
A proposito di ricordi, il 27 di novembre scorso è stato l’anniversario di morte di don Alberto Dioli, primo fidei donum della nostra Diocesi, missionario in Africa a Kamituga, nell’allora Zaire. Io bambino di Barco, dove lui era stato parroco, me lo ricordo quando in una sua permanenza a Ferrara passava a dare testimonianza nella scuola. Per me è stato il primo volto della missione e gliene sono grato.
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 dicembre 2024
Abbònati qui!