Quattro secoli prima: Andrea Alciato e Ferrara
di Micaela Torboli
Una delle sale della mostra che Palazzo dei Diamanti dedica a Escher (a cura di F. Giudiceandrea e M. Veldhuysen, fino al 21 luglio 2024) espone una serie di xilografie, Emblemata, che ha profondi legami con Ferrara.
Furono richieste all’artista olandese Maurits Cornelis Escher (1898-1972) da Godefridus Johannes Hoogewerff, storico dell’arte suo compatriota, che nel 1931 era direttore del Nederlands Historisch Instituut te Rome (Istituto Storico Olandese a Roma). Escher viveva in Italia da qualche anno, e vi sarebbe rimasto fino al 1935. La xilografia usa l’incisione su legni duri: può essere lavorata su legno di filo, ovvero matrici tagliate in direzione della fibra, oppure su legno di testa, quello che si ricava seguendo il senso perpendicolare. La prima opzione permette un segno morbido, la seconda un risultato del segno più simile a quello che si ottiene incidendo lastre metalliche. Escher elaborò le xilografie XXIV Emblemata dat zijn Zinne-Beelden (XXIV Emblemi, ovvero massime in versi illustrate), poi edite in un volume del 1932, stampato a Bussum (Olanda del Nord) da C.A.J. van Dishoeck, in trecento esemplari.
Protagonista è l’emblema, una combinazione di immagine con un motto ed un testo esplicativo, poetico o in prosa, ovvero un’idea italiana di elaborazione delle imprese araldiche, che hanno solo la figura ed il motto, mentre alla divisa/insegna basta la figura. Queste differenze fondamentali di solito vengono trascurate, e la parola emblema è spesso usata a sproposito, complice anche la presunta equivalenza con la parola inglese emblem, che però non è sempre sinonimo di emblema nel senso italiano del termine. Escher e Hoogewerff, invece, ne sono perfetti interpreti: abbiamo figura, motto e testo. I testi in olandese sono di Hoogewerff, con lo pseudonimo di A.E. Drijfhout, per i motti abbiamo il latino.
La parola emblema deriva dal greco, e in origine determina un ornamento, magari di un discorso, ma anche un’opera in mosaico o tarsia, qualcosa cui viene aggiunto un decoro. Ferrara entra nella partita per via di colui che inserì il termine in un repertorio di immagini, ognuna unita ad un motto e ad un epigramma, utile agli artisti per realizzare stemmi, spille da cappello, marchi tipografici densi di contenuti simbolici personali: non solo in àmbito nobiliare, quindi, ma per sfoggiare sensi eruditi e singole preferenze ideali. Si tratta di Andrea Alciato (Milano 1492-Pavia 1550). Ebbe l’idea di accorpare emblemi fin dal 1522, con soli epigrammi, confidando sugli artisti perché li usassero. La prima edizione illustrata, Emblematum liber, non autorizzata, uscì in Germania, ad Augsburg (Augusta), presso Heinrich Steyner, nel 1531 (giusti quattro secoli prima dei nostri olandesi), con un immenso successo, dovuto appunto alla presenza delle vignette, senza le quali un emblema non ha efficacia. Alciato lo capì, e fu da lui approvata l’edizione del 1534 (a Parigi, presso Chréstien Wechel), con illustrazioni per lo più attribuite a Jean Mercure Jollat. L’emblema I dell’edizione Wechel apre con una dedica a Ercole Massimiliano Sforza, primogenito di Ludovico il Moro e Beatrice d’Este, nipote del duca di Ferrara Ercole I d’Este: fu duca di Milano negli anni 1512-1515, e morì in esilio a Parigi nel 1530. Si tratta quindi di un onore postumo. Alciato scriveva emblemi per divertimento. Era un giurista di fama europea, che rivoluzionò lo studio e l’insegnamento del diritto, da vero umanista. Formatosi a Pavia e Bologna, nel 1516 si laureò in diritto civile e canonico a Ferrara. Era in contatto con i grandi del suo tempo, come Erasmo da Rotterdam, sommo interprete della cultura del ‘500, che a Ferrara poteva contare, così come lui, su seguaci e amici. Dopo una parentesi francese, Alciato insegnò a Ferrara negli anni 1542-1546: sono gli anni delle diciassette ristampe degli Emblemata nell’edizione Wechel, di cui l’ultima fu nel 1545. È quindi quanto mai pertinente a questo contesto presentare a Ferrara gli emblemi di Escher, anche per ricordare il grande Alciato.
Pubblicato sulla “Voce” del 10 maggio 2024
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