In Italia emerge un dato sempre più incontrovertibile: maggiore è il benessere, migliori sono le condizioni di salute. Servono dunque politiche mirate e che non incentivino le disuguaglianze. Oltre a un nuovo approccio
di don Augusto Chendi*
Negli ultimi decenni in Italia si sono osservati un progressivo miglioramento delle condizioni di salute e livelli di disuguaglianza tra classi sociali meno pronunciati rispetto agli altri Paesi europei. Eppure, le medie statistiche mascherano l’esistenza di differenze sistematiche: le persone più abbienti stanno meglio, si ammalano di meno e vivono più a lungo. Allo stesso modo, le Regioni italiane più povere mostrano indicatori di salute meno favorevoli. Tali differenze sono socialmente determinate e, almeno in parte, modificabili. Il tema merita il dovuto rilievo, soprattutto per gli effetti della lunga crisi economica e sociale che stanno colpendo il nostro Paese in maniera particolarmente grave, e per individuare al contempo congrue soluzioni.
CONTRO LA POVERTÀ NON SERVE L’AUSTERITÀ
In particolare, l’impoverimento della popolazione sta interessando tutti gli strati sociali, seppur con meccanismi diversi, facendo crescere il numero delle persone esposte ad esiti negativi sulla salute, penalizzando i gruppi socialmente più vulnerabili – soprattutto le famiglie numerose, i minori, gli immigrati, i nuclei monogenitoriali con figli a carico – e le aree del Mezzogiorno.
A fronte della tenuta complessiva del sistema di welfare, è di particolare attualità la preoccupazione che con la crisi le misure di austerità nella spesa pubblica, compresa quella sanitaria, siano aumentate e questi stessi interventi stiano sempre più accentuando le barriere nell’accesso alle cure, producendo ricadute negative sulla tutela della salute e sulle disuguaglianze. Al riguardo, i dati delle indagini ISTAT degli ultimi quindici anni nel nostro Paese mostrano come il ricorso al medico di medicina generale, ai farmaci prescrivibili e al ricovero, grazie all’assenza di barriere economiche all’accesso, si sia mantenuto più elevato tra le persone meno istruite, che esprimono un maggior bisogno di salute e ricorrono maggiormente alle cure ospedaliere per condizioni evitabili.
Si deve tuttavia costatare che, nonostante i dati dimostrino chiaramente l’importanza delle disuguaglianze di salute, il tema dell’equità ha finora stentato a far breccia nell’agenda pubblica, non solo quella del nostro Paese. La globalità e l’intersettorialità, che dovrebbero contrassegnare i piani e programmi per l’equità di salute, sono senza dubbio anche il punto più difficile da marcare, soprattutto in una società in cui la divisione in comparti stagni delle responsabilità e delle risorse, e la rendicontazione dei risultati per adempimenti e inefficienze rappresentano ostacoli spesso insormontabili, a volte anche per conflitti di priorità tra i vari settori.
L’equità nell’allocazione delle risorse, peraltro, corrisponde alla necessità del sistema di garantire le risorse necessarie, per assicurare pari condizioni di offerta ai diversi livelli del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Da tempo molte Regioni chiedono una revisione delle formule di riparto del Fondo Sanitario Nazionale, per poter commisurare meglio le risorse a garanzia dei Livelli essenziali di assistenza (LEA) e dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP), che concernono i diritti civili e sociali dei cittadini in proporzione alle differenze nei bisogni di salute che, come già osservato, sono molto influenzate dallo svantaggio sociale. Inoltre, in considerazione del fatto che tale svantaggio non è distribuito in modo uniforme tra le Regioni e all’interno di esse, è opportuno che i criteri di riparto del finanziamento sanitario tengano conto anche della distribuzione dei determinanti sociali.
A queste esigenze può essere ricondotta anche la legge n. 86 del 26 giugno 2024 in merito a Disposizioni per l’attuazione dell’Autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario. Questa legge, approvata non senza difficoltà e dubbi, anche sotto il profilo della costituzionalità di alcuni suoi articoli, comprende un chiaro ed esplicito riferimento all’allocazione delle risorse finanziarie in tema di Sanità. Al di là delle discussioni emerse e che a tutt’oggi sono ben lontane dal trovare un esatto equilibrio fra i valori coinvolti da salvaguardare e da promuovere, in tale delicata e complessa materia è comunque da evitare che nell’assegnazione delle risorse si privilegino situazioni solo per la maggiore capacità nel creare un loro utilizzo efficiente: la crescita della funzionalità è sicuramente un obiettivo irrinunciabile, ma dare meno risorse a chi è meno capace di gestirle efficientemente potrebbe contribuire a ridurre la quantità e la qualità dei servizi offerti alla popolazione.
Vero è che l’equità nella salute trova fondamento nella Costituzione del nostro Paese (art. 32) e la legge istitutiva del SSN ribadisca che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il Servizio Sanitario Nazionale». Pertanto, se le persistenti disuguaglianze nella fruizione del diritto alla tutela della salute non sono eticamente accettabili, queste stesse possono, anzi, devono essere in buona misura aggredite attraverso politiche e investimenti mirati, intervenendo altresì in modo adeguato ed efficace contro inefficienze croniche, soprattutto in alcune e ben note Regioni del Paese.
GIUSTIZIA E “CULTURA DELLA RELAZIONE”
In questo specifico ambito dell’equità relativamente alla Salute, si innesta il tema più ampio della giustizia, anzi, il problema del rapporto tra giustizia sociale e dignità umana, ossia la questione di come possa esserci giustizia sociale in un contesto politico ed economico caratterizzato da crescenti disuguaglianze, da inefficienze croniche di apparati e strutture locali, da particolarismi che faticano ad aprirsi al dialogo e a decentrarsi dai propri poli autoreferenziali, dall’emergere di nuovi centri di potere e di nuove forme di controllo sociale, come, ad esempio, quello delle nostre vite attraverso la sorveglianza digitale. In sostanza, quale giustizia è praticabile in una società pluralista come quella in cui viviamo? Cosa è giusto e ingiusto per ogni essere umano e per la responsabilità che a tutti i cittadini e a ciascuno contemporaneamente compete?
In questi processi di riforma, soprattutto in ambito sanitario, pur riconoscendo alle Regioni il valore di particolari forme di autonomia, non può comunque mai venire minimizzato o sottaciuto il principio dell’unità del Paese e della solidarietà tra le Regioni, nonché dell’uguaglianza e della garanzia dei diritti ai cittadini, nella salvaguardia dell’equilibrio del bilancio statale. Qui, senza falsi pudori e reticenze, si innesta senz’altro anche il necessario e improrogabile intervento – non solo di facciata o per opportunismo politico asservito al consenso elettorale – per un’efficace opera di qualificazione degli apparati pubblici, politici e amministrativi, volti ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni – si tratta per sempre di diritti – dei cittadini.
In questo orizzonte la salute, la cura acquisiscono una dimensione simbolica, ovvero assurgono a cifra delle società democratiche e solidali. Ci troviamo, dunque, a vivere una fase storica che vede un acuirsi delle disparità e l’emergere sempre più frequente di uno scontro tra i diritti, dove a prevalere non è la persona e il bene comune, ma il diritto del più forte, il diritto di chi in quel momento ha dalla sua il vento della cultura, dell’opinione corrente e dell’efficienza.
Da qui allora la necessità di cogliere e collocare anche i diritti, da parte di tutti e di ciascuno, nella loro dimensione relazionale e solidale. È un passaggio culturale, etico e politico certamente difficile, ma che appare sempre più urgente e necessario, se vogliamo consolidare sia il diritto sia la responsabilità e, quindi, tutelare la dignità di ciascuno e il bene comune. Diritti individuali e bene comune esigono la messa al centro di una vera e propria “cultura della relazione”, ricercando il valore del bene relazionale, come bene essenziale allo stesso tempo per la persona e per la società.
È un dato di fatto che la giustizia che abbiamo promosso, compresa quella in ordine alla Sanità, è rimasta spesso intrappolata in un paradigma razionalistico e formale. Assicurare la giustizia per tutti, se questo fosse mai possibile, non è ancora sinonimo, purtroppo, d’una giustizia di tutti. Alla giustizia procedurale ed individualista dell’uguaglianza, anche per quanto concerne la salute, dobbiamo essere in grado di abbinare una giustizia altruistica del dono e della relazione, che punti a rivendicare il “Noi” come nuovo soggetto socio-politico. Non vi è, dunque, giustizia sociale – sanitaria compresa – senza riconoscere l’altro come soggetto e risorsa indispensabile per la costruzione di una cittadinanza politica paritaria e inclusiva.
* Direttore Ufficio diocesano per la Pastorale della Salute
(Foto ANSA/SIR)
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 dicembre 2024
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