Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia pronunciata dal nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego nella Messa presieduta stamattina, 23 aprile, nella Basilica di San Giorgio fuori le Mura a Ferrara in occasione della Solennità di San Giorgio Martire

Onorevoli autorità civili, militari, responsabili di comunità religiose, cari presbiteri, cari fratelli e sorelle, oggi celebriamo S. Giorgio martire, nostro patrono, patrono di questa città di Ferrara. Sarebbe stato anche il giorno dell’onomastico di Papa Bergoglio, il cui nome è Giorgio, che vogliamo ricordare e ringraziare per un Magistero ricco e profondo che ci ha orientati in questi dodici anni del suo Pontificato.

S. Giorgio è un patrono che almeno dal VII secolo – tempo del castrum altomedioevale – accompagna la vita della nostra città, prima con la costruzione dell’antica Cattedrale fuori le mura, oggi Santuario dei Santi patroni Giorgio e Maurelio, e poi nella Cattedrale romanica, centro della vita medioevale della città, che porta in sé anche i segni di epoche successive, il Rinascimento e il Barocco, senza perdere la sua bellezza. La nostra Cattedrale somiglia alla nostra città che cresce nei secoli con incontri diversi sul piano religioso – penso alle diverse comunità ebraiche prima e oggi alle comunità ortodosse o islamiche o induiste – sul piano sociale, con un meticciato che attraversa le diverse invasioni di ieri e migrazioni di oggi. Nessuna città rimane sempre e solo la stessa, perché rischierebbe di morire. Sarebbe come una famiglia senza figli, una pianta senza frutti. Oggi la nostra città rischia questo declino, questa denatalità, accompagnata dall’abbandono delle campagne nel territorio, dalla chiusura di servizi commerciali, ma anche medici, sociali, religiosi. Il realismo ci chiede di guardare con verità questa situazione, che nei nostri Comuni dura almeno da dieci anni e non accenna a cambiare.

L’ascolto della Parola di Dio in questa solennità di San Giorgio, che cade nel tempo della Pasqua, in cui siamo illuminati dalla luce del Risorto, guida la nostra riflessione a partire da questa realtà quotidiana. La pagina degli Atti degli Apostoli ci mostra Pietro e Giovanni salire al tempio a pregare, in continuità con ciò che regolarmente faceva Gesù durante il suo ministero pubblico. E sulla porta del tempio i due discepoli incontrano un malato, uno storpio a chiedere l’elemosina. Per i poveri e i malati l’elemosina era l’unica fonte del loro sostentamento. Lo storpio chiede un aiuto anche ai due discepoli. Ma Pietro risponde di non avere denaro, ma che può dargli nel nome di Gesù un dono più grande: la possibilità di camminare. E così, dopo essersi fatto vicino, Pietro alza lo storpio e lo aiuta a camminare, tra la meraviglia di tutti. È il nuovo stile che Gesù ha inaugurato, quello di incontrare i poveri e avere per loro una preferenza. E lo stile dell’incontro di Gesù è anche quello descritto nella pagina evangelica, dove due suoi discepoli, delusi dopo la morte di Gesù stanno tornando da Gerusalemme a Emmaus, forse ai loro impegni di sempre. Qui Gesù non guarisce le ferite del corpo, ma del cuore, la paura, la delusione, aiutandoli a scoprire la verità delle cose, aiutandoli a capire che forse il Crocifisso è il Messia atteso dal profeta Isaia. E l’incontro finisce a tavola, dove si rinnova la Cena del Signore, l’Eucaristia che ora celebriamo, che aiuta a vedere, a capire. È la Pasqua dei due discepoli che non possono che correre a raccontare il loro incontro con Gesù risorto agli apostoli.

La Chiesa che cresce dopo la Pasqua, che si diffonde nelle città, porta questo stile nuovo, di preferenza per gli ultimi, di prossimità, ma anche di amore alla verità e alla giustizia. E al centro di ogni città dove giungono i cristiani nei secoli, anche di questa città, c’era una risorsa importante: la fede. Una fede che era capace di lasciarsi guidare anche dall’intelligenza, dalla cultura e che ha generato Santi, profeti, che hanno avuto il coraggio di scelte radicali: la beata Beatrice d’Este, la ricca che diventa povera e una donna di preghiera, come S. Caterina Vegri, il cui monastero trasforma anche la vita di Lucrezia Borgia, o il Beato Tavelli, il Vescovo che si fa attento ai malati con la costruzione del primo Ospedale o Girolamo Savonarola, il profeta che condanna l’usura e una politica che guarda solo l’interesse personale e familiare fino ad arrivare ai Servi di Dio del nostro tempo, Suor Veronica e Padre Marcello, che hanno fatto della preghiera e della penitenza, ma anche dell’attenzione ai bambini malati per Padre Marcello, il fulcro della loro esistenza.

Testimonianza di questa fede sono anche le opere d’arte che sono un tesoro della nostra città. Ci domandiamo: “C’è ancora fede in questa città”? La risposta non può che essere positiva. La fede attraversa, senza clamore le strade, le case, le famiglie, le chiese, i monasteri di questa città. E’ una fede di pochi? Non sono pochi che hanno la fede, forse sono pochi quelli che frequentano l’Eucaristia domenicale: tra il 5% e il 10%! Ma anche loro sono un tesoro della nostra città: un tesoro di fedeltà, di preghiera, di partecipazione alla vita delle nostre comunità parrocchiali e unità pastorali, di volontariato, di lavoro e di impresa, di sofferenza nelle case di cura, di fatica educativa. Forse c’è bisogno che questa fede, soprattutto di tanti laici, diventi più vita, movimenti maggiormente la nostra vita ecclesiale e sociale almeno su alcuni temi importanti per la vita della città: la solidarietà verso i più poveri, la lotta a ogni forma di violenza e l’impegno educativo per la pace, la cura degli anziani, la partecipazione alla vita politica, a partire dal voto. Questo impegno sarebbe un esempio, una testimonianza per i più giovani, che sono coloro che maggiormente sono assenti dalle nostre celebrazioni eucaristiche, ma anche nella vita delle parrocchie che sono, però alla ricerca di qualcosa per cui valga la pena spendere la propria vita.  Ma a fronte della denatalità crescente e della vita che muore, l’impegno urgente dei cristiani è a una testimonianza di vita familiare fedele, coerente, aperta alla vita. Senza famiglia la città continua a morire. Senza famiglia la vita, un figlio rischia di diventare qualcuno importante solo in un momento particolare della vita e forse assecondando solo un bisogno personale. Senza famiglia l’amore rischia di essere segnato gravemente dalle situazioni, dalle circostanze. Sulla famiglia cristiani e non cristiani si devono interrogare insieme, per non lasciare che modelli di convivenza scardinino i principi su cui la vita nasce, cresce, è tutelata e muore. E la famiglia ha bisogno di una casa.

Il tema della casa è un tema vitale che non può essere lasciata solo al mercato, ma ha bisogno di un nuovo impegno pubblico che sappia rispondere alle esigenze delle giovani coppie, degli studenti universitari o lavoratori che un domani – come sta avvenendo – scelgono la nostra città per vivere, delle famiglie di migranti e rifugiati. Come anche la famiglia ha bisogno di vivere in un ambiente curato, non inquinato. Purtroppo, la nostra Pianura padana è la zona più inquinata d’Europa. Forse dobbiamo dare più risorse a investimenti per la bonifica del territorio, per la riconversione di alcuni siti industriali, per un’agricoltura sostenibile, ma anche abituarci a uno stile di vita più sobrio, più essenziale ed educare i giovani a questo stile. E infine la famiglia ha bisogno di luoghi educativi che la supportino. Oggi entrambi i genitori lavorano, a motivo dei costi della vita. Pur rimanendo loro il perno dell’educazione dei figli, soprattutto laddove il padre o la madre restano lontano giorni per il lavoro o purtroppo sono separati, è fondamentale il ruolo di ambienti educativi che abbiano cura dei figli, della loro educazione. La scuola è importante, ma per i preadolescenti e i giovani non basta. Servono luoghi educativi, associazioni e centri giovanili, esperienze diverse sportive, musicali, la stessa contrada che offrano non solo luoghi, ma cammini educativi, relazioni importanti per la loro crescita e le loro scelte, con figure educative al fianco.

Come Chiesa sentiamo fortemente questa ‘emergenza educativa’ a cui, però, non possiamo far fronte con le stesse risorse di ieri: scuole, istituti religiosi, centri parrocchiali, strutture sportive. Occorre unire le forze, perché la città abbia una forza educativa importante.  Come S. Giorgio dobbiamo avere il coraggio di affrontare la realtà, anche il male e sconfiggerlo insieme. Per fare questo dobbiamo seguire il Signore, come S. Giorgio, dando anche la propria vita. Non si può pensare di costruire una famiglia senza dare la propria vita: lo sanno bene i padri e le madri qui presenti. Non si può pensare di costruire una città senza fatica, sacrifici, senza regalare tempo e denaro per gli altri, i più poveri. Non si può pensare di costruire una città pensando solo a se stessi, solo curando i propri spazi, le proprie esigenze, nascondendosi dietro le mura dell’antica città, pensando di lasciare fuori chi non desideriamo, creando “nuove barriere di autodifesa, così che non esiste più il mondo ed esiste unicamente il “mio” mondo” – ci ricordava Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti– e cedendo alla “tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare i muri, muri nel cuore, muri nella terra per impedire questo incontro con altre culture, con altra gente. E chi alza un muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito, senza orizzonti. Perché gli manca questa alterità” (F.T. 28), concludeva Papa Francesco.

Onorevoli autorità, cari fratelli e sorelle, la fede ha innervato la vita di questa città, a partire dalla fede di S. Giorgio che la città si è scelto come patrono. La stessa fede, rinnovata dalla Pasqua che abbiamo celebrato nei giorni scorsi, animata da scelte nuove di corresponsabilità tra presbiteri e laici, di partecipazione alla vita ecclesiale, sociale e politica, da una nuova scelta di vita familiare aperta alla vita, fedele, che educa, che ama il dialogo e la pace, che sa condividere, rinnovi la vita della nostra città di oggi e di domani. Così sia.

(Foto di Maria Grazia Dainelli)

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