La storia del “Cristo della moneta” del Tiziano, salvato – grazie ai russi – dagli abissi dopo il terribile bombardamento di Dresda: ecco la testimonianza tradotta in italiano di Leonyd Volynsky, soldato sovietico, pittore ed esperto d’arte che lo ritrovò (e analizzò…)

di Umberto Scopa

Il “Cristo della moneta” di Tiziano, oggi conservato a Dresda, è un dipinto trattato ampiamente da molti studi. Eppure rimane un passaggio oscuro riguardo alla vita di questo dipinto che merita di essere conosciuto e indagato. L’unica fonte che ne parla è una testimonianza, scritta in russo, tradotta e pubblicata in inglese, mai in italiano e non rintracciabile nel nostro paese. Ho recuperato non senza difficoltà questo testo, l’ho tradotto e qui riporterò più avanti alcuni passi. Riguardano appunto un momento particolare della vita di questo dipinto, quando rischiò di sparire per sempre.

Ma prima sarà mia cura annotare qualcosa sulla sua genesi e le successive vicende fino ai fatti da me preannunciati. 

DA FERRARA A DRESDA

Nel dipinto di Tiziano si osserva un fariseo che mostra a Cristo una moneta. La scena si riferisce ad un episodio biblico. È quello dove il fariseo chiede a Cristo se sia lecito pagare un tributo a Cesare. Rispondere sì susciterebbe l’ostilità della comunità ebraica, rispondere il contrario, delegittimerebbe l’autorità romana nella riscossione dei tributi. A questa domanda Cristo risponde con la celebre frase «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». 

Questo dipinto di Tiziano appartiene nella sua genesi alla storia di Ferrara. La datazione riportata dalle fonti è l’anno 1516, quando avviene il primo di una lunga serie di contatti tra Tiziano e la Corte Estense. Il Vasari – nella seconda edizione de Le vite 1 – ricorda il dipinto collocato sull’anta di un armadio del camerino di Alfonso I D’Este. Ma il “Cristo della moneta” non era destinato a rimanere a lungo nel camerino di Alfonso. Con la devoluzione di Ferrara allo Stato Pontificio nel 1598, gli estensi fuggono a Modena e Cesare D’Este riesce a conservarne il possesso; ironia del destino, non gli sarà sfuggito che Cristo nella scena predetta sta dicendo appunto «date a Cesare quel che è di Cesare». 

Cesare d’Este dunque porta il dipinto a Modena, ma nel 1745 la ricca quadreria estense modenese, compreso il dipinto di cui sto parlando, viene venduta ad Augusto III di Sassonia. Forse si dovrebbe dire “svenduta”. L’intera collezione composta da un centinaio di dipinti – compreso quello in questione -passa ad Augusto III per il prezzo di 100 mila fiorini: cioè meno di un terzo di quanto era costato l’abito di Augusto II per la cerimonia d’incoronazione 2. 

Il dipinto con il suo eterno quesito trova la sua sede definitiva appunto a Dresda dov’è ancora oggi. Da quando arriva presso i nuovi proprietari è ben custodito da collezionisti scrupolosi, come erano gli Elettori di Sassonia, appassionati amanti dell’arte. Difficile immaginare insidie per la sopravvivenza di quest’opera. Per convincersi immediatamente del contrario basta mettere a fuoco un giorno di molti secoli dopo, precisamente il 13 febbraio 1945.

TESORI NASCOSTI

Quel giorno il cielo di Dresda all’improvviso si oscura e l’aviazione americana scarica sulla città un bombardamento tra i più devastanti che si ricordino. Quel che resta di Dresda non devo ora ricordarlo nei numeri sconvolgenti, dirò solo che non sfugge alla distruzione neppure il celebre Museo dello Zwinger, dove l’immensa collezione d’arte degli Elettori di Sassonia era conservata, compreso “Il Cristo della moneta” di Tiziano. 

Veniamo ora ai fatti sui quali volevo attirare l’interesse. Un soldato dell’armata rossa, Leonyd Volynsky, si aggira tra le macerie ancora fumanti dello Zwinger. Non può sapere che sta vivendo il primo di sette giorni cruciali per la storia dell’arte mondiale. Sette giorni troppo importanti per essere così poco conosciuti ancora oggi in tutti i paesi che ripongono in quel patrimonio di opere le loro radici culturali. 

Ma chi è Leonid Volynsky e perché è dentro questo racconto? Lui stesso ci racconta di essere un soldato russo che entra a Dresda immediatamente dopo il bombardamento americano. È anche un pittore e uno studioso d’arte. Ha una solida formazione e una vera e propria adorazione per l’arte in genere e anche per quella occidentale che conosce profondamente.

Il comando dell’esercito lo incarica di guidare un piccolo manipolo di soldati con una missione enorme. Lo Zwinger è in macerie, ma dell’immenso patrimonio di opere non c’è alcuna traccia. Hitler le aveva fatte asportare in massa in altri luoghi perché non fossero trovate dagli alleati ormai alle porte. Ora più che mai è urgente recuperarle: non ci sono indizi su dove siano state nascoste. Il tempo stringe, ogni istante che passa potrebbe cancellare interi capitoli della nostra storia dell’arte. Le opere potrebbero essere in luoghi inadatti alla conservazione, esposte agli agenti atmosferici, ai trafugamenti, o già distrutti dalle bombe. Se qualcosa resta non c’è davvero molto tempo. Leonyd Volynsky decide di annotare attimo dopo attimo gli avvenimenti di quei giorni e il corso dell’avventurosa ricerca. Le sue memorie le racconterà in un libro, “Seven days” 3.

Inizia così una caccia al tesoro di sette giorni. Indizi raccolti da personaggi incontrati sul percorso guidano la ricerca, fino al ritrovamento di una mappa da decriptare che forse indica la via giusta. È però una “mappa silenziosa”, come la chiama l’autore. Cioè ci sono linee tracciate sulla carta, ma non ci sono nomi delle località e delle strade. I punti evidenziati con simboli ancora indecifrati forse indicano i luoghi dove le opere sono nascoste. Impossibile però orientarsi senza nomi di luoghi, finché non viene individuata una linea che con le sue curve appare quella del fiume Elba che attraversa la città. Ora è possibile orientarsi e la ricerca prende una direzione possibile.

QUALCOSA CHE PARLA SILENZIOSAMENTE

Dopo avventurose peregrinazioni tra le macerie della città, seguendo indizi e testimonianze di gente incontrata nel cammino, i ricercatori escono dal centro abitato e raggiungono un’antica miniera da tempo abbandonata. Ed è in fondo alla miniera che si rivela ai loro occhi la figura del Cristo. Le sue condizioni di salute sono terribili. Così descrive l’autore, con le parole che traduco dalla versione inglese del suo scritto, il ritrovamento del dipinto e l’intervento di “primo soccorso” effettuato in loco 4: «Il piccolo dipinto – 20 per 30 pollici – giace nel lontano fondo della galleria che è quasi totalmente sott’acqua. La conseguenza si vede nelle fessure profonde e lunghe che attraversano lo strato superficiale del dipinto da cima a fondo, come se seguissero gli strati lineari del legno… L’intera superficie tra queste fessure è ricoperta da una rete di sottili crepe. Natalya Sokolova tocca la cornice ornamentale…tira indietro la sua mano come se si fosse scottata e scuote la testa in silenzio. Prontamente le più profonde ferite sono coperte con piccole strisce di bendaggio. Gradualmente nascondono il volto pallido, appannato di Cristo con il suo aspetto tranquillo, spiritualmente vigoroso. Coprono anche i volti scuri, bronzei dei farisei – la fronte irregolare e sporgente, i nasi carnosi, l’anello nell’orecchio prominente. Tempo cinque minuti e la sola cosa che si vede sono le mani, una delle due giallo pallida e sottile con lunghe e delicate dita, l’altra nodosa, scura, che stringe tenacemente una moneta. Dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Queste sono le parole della moneta. Il significato del dipinto ha poco a che fare con la massima biblica che proclama l’immaginaria separazione tra Stato e Chiesa. Lo scontro tra verità e falsità, sincerità e ipocrisia, calma dignità e astuzia egoista – questo è il vero, universale, eterno significato del dipinto. Nessuna parola è necessaria: persino se l’opera fosse andata in pezzi e perita, lasciando solo queste due mani, queste avrebbero continuato a raccontarci la stessa storia che l’intero dipinto racconta con questa soverchiante forza in ogni colpo di pennello e il suono di tutti i colori. Qui forse avete il più chiaro, il più puro esempio di cosa realmente è la pittura: “qualcosa che parla silenziosamente”».

***

NOTE

1 Tiziano e il tributo della moneta, Andrea Donati, in Studi Veneziani LXX del 2014, Fabrizio Serra Editore, Pisa–Roma, pag. 94.

2 Il trionfo di Bacco, capolavori della scuola ferrarese a Dresda, a cura di Gregor G. M. Weber, Umberto Allemandi Editore, 2002, pag. 40.

3 Seven Days, Leonid Volynsky, Progress Publishers Moscow, 1979.

4 Ibid., pag. 109.

 

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 29 novembre 2024

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