Il racconto straziante di Luca Andreoli (Ferrara Terzo Mondo) della miseria ad Addis Abeba
di Luca Andreoli*
Da quando ho rivisto recentemente uno splendido documentario RAI sulla figura di Shlomo Venezia ho potuto meglio comprendere una mia esperienza in Addis Abeba dello scorso marzo. Questo ebreo italiano era nella Sonderkommando di Birkenau e aveva come compito di accompagnare gli ebrei appena arrivati in questo campo di sterminio alle docce dove si spogliavano degli abiti. A loro era stato comunicato che dovevano lavarsi dopo il lungo viaggio subìto nelle carrozze per il bestiame. In realtà Shlomo sapeva che stavano per essere gassate. Erano soprattutto donne, anziani e bambini, inabili ai lavori forzati del campo. Una volta entrati nello stanzone questi si toglievano gli abiti e Shlomo, dandosi una forza impensabile, si rivolgeva loro dolcemente, con tutta la cura che ancora poteva esprimere. Ai bambini allungava spesso qualche misero cibo che lui separava dal suo misero piatto. E loro sorridevano, verso la morte e in mezzo alle grida di chi aveva compreso il proprio destino.
Con le dovute proporzioni, ho provato, come Shlomo, lo stesso brivido interiore quando ho incontrato per le strade vicine alla mia pensione un gruppo di bambini, di età media di 7/8 anni, senza dimora, senza famiglia, senza niente. Quelli che si definiscono gli “street children”, onnipresenti nelle città dei paesi del Sud del Mondo ma anche nel nostro mondo opulento. In Africa sono milioni, dormono per strada e si nutrono con quello che riescono a racimolare chiedendo l’elemosina oppure frugando tra i rifiuti delle discariche. Avevano, forse, una famiglia. Vi sono “Ngo” e varie associazioni che da anni cercano di aiutarli in maniera organizzata e continuativa. Ricordo “Amani” di Milano che convoglia denaro a padre Kizito Sesana, comboniano, per le due case-famiglia a Nairobi (Kenia) e a Lusaka (Zambia) e anche il “VIS”, fondato dai salesiani, operante anch’esso in Addis Abeba e con cui hanno collaborato anche i coniugi Bottura di Ferrara. Ma è un compito difficile e complesso. Anche l’ong “Centro Aiuti per l’Etiopia”, con cui ho collaborato, si è ben guardato di operare anche in questa direzione.
La mia esperienza parte dal ripetuto incontro con gruppetti di questi bambini e, dagli incroci di sguardi, mi sono sentito interpellato.
In pratica l’associazione “Ferrara Terzo Mondo” con il ricavato dalla gestione del Mercatino dell’Usato di via Guidetti, 28 a Ferrara, riesce a sostenere un centinaio di persone, tutti nuclei familiari in miseria, spesso con la madre e svariati figli. Ma almeno questi bambini, pur nelle enormi difficoltà, hanno un madre e hanno fratelli con cui condividere la lotta quotidiana per sopravvivere. Abbiamo un bravo e onesto referente locale, Zerihun, 32enne insegnante, e null’altro.
Cosa, dunque, potevo propormi? Ancor prima di una risposta razionale, misurando la mia e le nostre possibilità, ho cercato di radunare i ragazzini che incontravo più spesso, ho portato giornalmente una focaccia e una bottiglia d’acqua per ognuno, accompagnati da una piccola offerta in denaro. Poi, con Zerihun, abbiamo organizzato, per gli 11 mesi in cui sono in Italia, un programma quindicinale di incontri nel cortile della mia pensione, dove continuare ad incontrarli e dare loro somme di denaro più consistenti e per cercare di rispondere a loro particolari esigenze. E anche questo è diventato un nostro piccolo progetto. Ora le persone assistite sono diventate 16, compreso una giovanissima madre con un figlioletto di qualche mese.
Ho conosciuto molte storie dei bambini di strada e chi li ha assistiti per molto tempo mi ha confermato che le loro speranze di vita si fermano ai 20/25 anni. Troppo dura, comunque, è la loro vita, anche perché Addis Abeba si trova a 2.500 metri di altezza, la notte è sempre fredda e ancor più lo è nei 3/4 mesi di piogge. L’umidità corrode i loro piccoli corpi malnutriti e il peggiore destino è in agguato.
Nel primo incontro di gruppo, li ho fatti venire nella mia stanza della pensione. Avendo comprato per ognuno un paio di scarpe nuove, ho voluto lavare i loro piedi, sporchi da incrostrazioni di povertà e di girovagari estremi. Loro sorridevano, forse increduli ma poi contenti di un affetto semplice, rigato da lacrime di impotenza sul loro destino. Con minore intensità confronto all’esperienza inimmaginabile di Shlomo, ma che, come una malattia incurabile, non si distaccherà più da me.
Da allora ogni giorno penso a loro, alla mia e alla loro vita. Così lontane e così vicine.
*Ferrara Terzo Mondo
Pubblicato sulla “Voce” del 3 novembre 2023
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